
Intanto una curiosità: il doppio “The Beatles” noto ai più come “L’Album Bianco” per la bellissima copertina completamente candida, sarebbe stato intitolato “Doll’s House” se non fosse uscito qualche tempo prima questo folgorante debutto dei Family, soffiando l’idea ai Fab Four. La band, costituita da musicisti di grande tecnica tra i quali quel Rich Grech al violino che poi ritroveremo nei Blind Faith in compagnia di Clapton, Winwood e Ginger Baker, nel 1968 dà alle stampe uno dei primi esempi di “progressive”. No ragazzi, niente a che vedere con le lungaggini barocche di dubbio gusto alla Rick Wakeman, qui il termine “progressive” va inteso nel suo pieno (e nobile) significato etimologico. Progredire, “andare oltre”, oltre la forma canzone, oltre l’immediata identificazione di genere, oltre quanto proposto fino a quel momento. Il gruppo, sotto la sapiente regia di Dave Mason dei Traffic, frulla in un magico shaker blues e psichedelia servendo il tutto in un irresistibile condimento pop della migliore tradizione british. I primi quattro brani, relativamente brevi, fluiscono l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. “The Chase”, il primo pezzo, vi darà la gioia di uno scivolo percorso a rotta di collo in un sinistro aquapark con destinazione un tuffo nelle incantate acque della dolcissima e struggente “Mellowing Gray” (splash!). Le potenzialità espressive della voce roca di Roger Chapman sono qui utilizzate nel modo migliore: rabbioso, malinconico, a tratti inquietante, il buon “Chappo” (come lo chiamano amici e fans ad ogni latitudine del mondo) si dona in un’incredibile rosa di umori, le tinte gotiche del violino di Rich Grech, i fiati malati di Jim King fanno il resto. Imperdibile.
(Mario Siccardo)