
La tempesta brit-pop sarebbe scoppiata nel 1994 con quel primo lampo rappresentato dal singolo d’esordio degli Oasis, “Supersonic” e da un album “generazionale” come “Parklife” dei Blur. Eppure l’anno prima tutto pareva così diverso. La cultura rave da un lato e il grunge dall’altro dominavano la scena. Persino un disco di grande successo quale l’opera prima degli Suede si compiaceva di creare intorno a sé un certo alone elitario. Nel 1993 esordivano anche gli Auteurs di Luke Haines, artista consapevole del proprio talento e della propria intelligenza e presuntuoso abbastanza da volerli far conoscere al grande pubblico. Naturalmente non riuscì nell’impresa, anche se la critica specializzata riconobbe lo splendore melodico classicamente inglese di “New Wave”. Si può dire che per il pop inglese questo disco abbia rappresentato ciò che per il folk rock fu “Henry The Human Fly” di Richard Thompson. Come Thompson, anche Haines resta in un ambiente sonoro noto e riconoscibile per ridipingerlo con colori più cupi, per creare un mondo dove vincente è soltanto la Sconfitta. Un mondo dove il successo è sempre ben visibile (“Valet Parking”), sempre a portata di mano (“Strastruck”) ma appartiene sempre ad altri (“American Guitars”), mentre a noi è dato solo vivere di luce riflessa (“Showgirl”). Opera in qualche modo autobiografica, “New Wave” è la prima indicazione del tormentato talento di uno dei grandi incompresi della scena musicale britannica. Lo dimostreranno tutte le sue avventure successive, dai tre ulteriori album come Auteurs, ai dischi da solista, a quelli incisi come Black Box Recorder o Baader Meinhof, sino al prezioso riassunto di carriera rappresentato da “Das Capital”.
(Antonio Vivaldi)