Musica italiana

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SCORTILLA - Fahrenheit 999

A bocce ferme, ora che anche la presentazione in negozio, con tanto di mascherine indossate, è diventata un ricordo piuttosto ironico, vale la pena di riprendere il discorso. Il 24 febbraio del 1980 del secolo scorso, quando ancora la musica non era un click su una tastiera e la soglia d'attenzione del pesce rosso, qualche secondo e poi si passa ad altro, Gli Scortilla si presentarono su un palco, al Ludrix Club. È passata molta acqua sotto il ponte, è passato anche il ponte, a dividere le sorti di Genova in due spicchi di comunità che, riuniti, non riescono più a farne una, è passato tutto. Non passa la memoria, per fortuna, nelle persone di Pivio e Marco Odino, che tornano con un vinile (più flexidisc allegato: diventerà, auspicabilmente, un “oggetto di culto”, come si suol dire) che torna a presentare quel nome importante: che a Genova significò amara, a tratti urticante riflessione su un decennio tumultuoso che si chiudeva, e uno infiltrato di acida disillusione che si annunciava. Chi ha amato le desolate atmosfere da fine di ogni mondo possibile della trilogia berlinese di Bowie, gli Ultravox e i Pil, chi ha sempre pensato che (anche) il gelido synth rrock avesse,omeopaticamente, il dono di guarirci dalla glacialità di un mondo ammantato solo di lusinghe commerciali orwelliane, e con l'anima svenduta oggi per un “like” in più, qui troverà (spietatissimo) conforto. Bentornati. (Guido Festinese)

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BARBARA RUBIN - The Shadow Playground

In un mondo musicale dominato dalla superficialità degli ascolti, che ormai hanno il tempo d'attenzione di un clic sulla tastiera, e se quanto si afferra nei primi secondi non ha caratteristiche banalmente rassicuranti, tanto vale che si passi ad altro, i lavori di Barbara Rubin vanno difesi e diffusi come meritano: perché non sono merce deperibile, perché un ascolto distratto non è proprio possibile, con i suoi dischi. Che escono a intermittenze anche di molti anni, perché lo scadenzario lo detta l'ispirazione e la vita vera, non il mercato che ha bisogno di ninnoli ripetitivi. Barbara Rubin suona viola, violino, tastiere, chitarra, basso e batteria. E ha una voce stranita e affascinante che a molti potrebbe ricordare qualcosa di Kate Bush, un'idea di Joanna Newsom, un pizzico di Annie Haslam. 

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Una nuova sensazione musicale di casa nostra. Gli Embers sfoggiano un'ottima tecnica, del resto hanno alle spalle proficui studi al conservatorio. Il loro sound è piacevolmente made in USA: pieno, caldo, ad un tempo vintage e moderno. L'ascoltatore può cogliere aromi californiani, ma anche sudisti (ZZ Top, su tutti), conditi da opportune spezie blues e psichedeliche, vagamente hendrixiane a tratti. Eccellente è l'interplay tra i vari strumenti, con i fiati a garantire una ulteriore saturazione degli spazi sonori in linea con il wall of sound di spectoriana memoria. In questi otto brani la band italiana dimostra di aver molto da dire e da dare. Passione, entusiasmo, calore antico e amore per il classic rock: tutTHE EMBERSto questo può esser senza fatica avvertito nelle tracce che vanno a comporre questo esordio omonimo, autoprodotto. E pure quando sfiorano l'hard – o certo punk inglese alla Clash, come si evince da certi cori da stadio in alcuni frangenti canori – danno sempre prova di saperci fare. E' il rock eterno, che non muore mai e per nostra grande fortuna c'è ancora. In America lo si chiamava negli anni Ottanta arena rock, che sa di whiskey e olio di Harley. Molto belle, in questo lavoro degli Embers, anche alcune digressioni country rock, certo sempre robuste e sostenute ritmicamente, senza mai sfociare in mollezze o melensaggini. Davvero un gran bel disco, fresco e divertente, registrato con grande professionalità e dalla confezione elegante. (Davide Arecco)

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L’ESPERIMENTO DEL DR. K – Terrore sul mondo

C'era una volta l'horror punk – o death rock, come lo si chiamava nell'America di fine Settanta / primi Ottanta. Quella musica, quell'immaginario – nutrito di amore sincero per i fumetti ed i B-movies degli anni Cinquanta – rivive oggi di splendida luce nera in questo secondo lavoro de L'esperimento del Dr. K, quartetto genovese che, sin dal fantastico artwork cinematografico, sa riportare in auge atmosfere e melodie che molti ritenevano a torto sepolte. Dario Gaggero e i suoi tre amici – Matte alla chitarra, Stix al basso, Paolo alla batteria – disseppelliscono dalle cripte del passato i suoni e lo stile di scuola Misfits e Danzig (specie i primi), per riconsegnarci in ventidue entusiasmanti minuti – i brani sono 13, neanche a dirlo – tutta la fresca essenzialità del punk più gotico e orrorifico, attraverso queste registrazioni fatte "in una notte di plenilunio al Greenfog Studio" del capoluogo ligure.

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MOTUS LAEVUS - Y

Non fosse per la notorietà dei musicisti che ruotano attorno al progetto Motus Laevus, ci sarebbe da intimorirsi per il titolo, ovvero la Y dell’incognito. Si aggiungano anche le parole latine che definiscono il trio (moto sinistro, senso antiorario) e un po’ d’inquietudine viene a galla. Invece il disco è chiaro, dinamico e denso  senza essere greve o banale. Motus Laevus si compone, per due terzi, da Edmondo Romano, con  i suoi molteplici strumenti a fiato e da Luca Falomi, che sfodera altrettante chitarre (e un basso); completa il trio la pianista e cantante Tina Omerzo, anche lei concittadina, ma originaria della Slovenia. Da quei lidi meticci Tina porta sapori mediorientali e musiche dell’Est europeo. Due altri musicisti di casa (verrebbe da dire vecchie glorie!)  aggiungono ritmo al mélange sonoro dell'ensemble;  sono Marco Fadda, con il suo bagaglio di percussioni, e Rodolfo Cervetto, alla batteria. Naturalmente, viste le forze in campo, si può parlare di world music, di balcani e persino di jazz. Ma le etichette qui rischiano di essere fuorvianti; nonostante le composizioni originali siano affiancate da alcuni tradizionali (uno greco-turco, uno croato) l’insieme è coerente e raffinato. Non per giustificare le ‘quote rosa’ di questo progetto, ma Tina Omerzo è una vera sorpresa: canta e compone due brani, musica i versi della poetessa Mojca Maljevac e fornisce, con il suo pianoforte, un interessante contributo all’impasto sonoro con un tocco tra il classico e il contemporaneo. (Fausto Meirana)

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Eccolo, finalmente, libero da tutti gli orpelli celebrativi (che pure hanno fatto un buon docufilm) il concerto ritrovato di Faber a Genova, 3 gennaio del 1979, Fiera di Genova. I due famosi “live” pubblicati a suo tempo, dove campeggiava “arrangiamenti della Pfm” li ricordano tutti: un prodigio di efficacia comunicativa e di energia in stringente connubio, una sferza di entusiasmo per un De André che aveva bisogno di ritrovare forza e scelte, e una Pfm che, a quasi vent’anni di distanza dalla prima collaborazione con De André trovava mondo di far scoccare la scintilla dell’entusiasmo ancora una volta, loro che s’erano quasi bruciati a forza di fare il “grande gruppo prog dello spaghetti rock in continua trasferta”. Faber ritrovò la sua forza perduta, la Pfm il coraggio di cambiare. Avevano un limite quei due “live”? Sì, essere troppo perfetti, anche se la cosmica e saggia indecisione cosmica di Faber aveva bisogno di ansia, desiderio di perfezionismo e rituali da ripetersi sempre allo stesso modo, per non tradire il suo pubblico, e non lasciasi andare , lui, a una sciatteria che, nella sua musica con parole pensata fino al microgrammo, non gli apparteneva. Che bello, però, riascoltare questo concerto che aggiunge rughe e spigoli taglienti e piccole imperfezioni qua e là, e che a dispetto del mirabolante restauro sonoro per rendere levigato e udibile quanto era frastuono e basta (quasi un miracolo), conserva un che di grezzo, di incompiuto, di “rough”, come direbbero gli anglosassoni. Questo è un omaggio vero. (Guido Festinese)

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