Teatro della Tosse , sabato 26 novembre 2016
Pare che qualcuno abbia detto a Martino Coppo della Red Wine: “Ma perché continuate a chiamarlo Bluegrass Party?”. Già, è preoccupante abitudine di ogni appassionato di un ramo particolare delle musiche afroamericane (bluegrass compreso, dunque, e ci mancherebbe) di ergersi a giudice etico ed estetico della conformità ortodossa di un genere a propri supposti e inalterabili confini. Confini ovviamente stabiliti da chi ritiene praticare l'ortodossia già nominata. Un po' come quando i seguaci del neoprog accusano certe band contemporanee di essere poco derivative dai grandi degli anni Settanta, o troppo, o certi jazzofili stabiliscono patentini di autenticità ai jazzisti in base a una loro concezione di ciò che deve essere jazz e ciò che non lo è. Ad esempio con la caratteristica mitica del “tasso di swing contenuto”. Liberi di pensarla così, ma si manca in pieno il senso di queste musiche: che nascono spurie e meticce, che sono spugne idrovore di ogni arricchente liquido nutritivo , e per fortuna continuano allegramente ad esserlo, alla faccia e per lo scorno dei puristi . Dunque, qual era la lesa maestà bluegrass di questo ottavo Party, nello specifico? di essere dedicato ai songwriters, ai cantautori, diciamo noi. Bella razza di “tradimento”, no, visto che il bluegrass vive e respira di canzoni, bluegrassizzate quanto si vuole!. Ed ecco allora ospite sul palco (e finalmente, dopo i guai dello scorso anno) Shane Sullivan, un cantautore di Dublino ben esperto di altre “eresie”: ad esempio nel conservare l’impronta melodica della sua isola, nell'essere parecchio sporto su piacevolissimi lidi folk rock, con punte insaporenti di country music e pop a legare il tutto. Ottima scelta, per una serata incorniciata, all'inizio e alla fine, da due quasi “doverosi” tributi a songwriter senza confini: il Bob Dylan fiammeggiante di “You Ain't Going Nowhere”, che con elegante mossa “trasfigurava” da uno schermo dietro ai musicisti alle note “vere” della band, il Leonrad Cohen dolente e sublime di “Hallelujah”, eseguita dalla band con le sole voci e una chitarra. Il concerto, oltre alle fresche energie di Sullivan, di cui sentiremo senz'altro riparlare, ospitava al solito altri bei talenti, non considerando più “ospite” il grande Davide Zalaffi alla batteria: Roberto Bongianino dalla Paolo Bonfanti Band alla fisarmonica, Paolo Ercoli a dobro e pedal steel, presenza tanto discreta quanto raffinata e deicsiva, nella scelta melodico-ritmica del suo accompagnamento, Francesco Bellia al pianoforte, Fabio Biale dei Liguriani a violino, voce, percussioni, Pierrrete Berentzen alla voce. Qualche picco del concerto? Ad esempio nella impressionante versione in “bluegrass – samba” di “Arriu”, quella splendida “Ma se ghe pensu” al contrario che s'inventò Natalino Otto tanti anni fa, con gustosa autoironia. Oppure la versione rotolante e rutilante de “Il bandito e il campione”, o ancora la sinuosa “Under African Skies” pregiata ditta Paul Simon. Un brano di Sullvan da ricordare? Ad esempio “Make My Day”. Quasi epitome di quanto di bello ci lasci la Red Wine: il “risolverci la giornata” con un bagno di buona musica ed eleganza comunicativa senza affettazione che vorremmo avere più spesso. (Guido Festinese)
Foto di Michele Mannucci