L'Altra Woodstock 1969 - 2019 Teatro della Tosse
In sala c'era anche un signore che a Woodstock c'era stato davvero. E che, salutato dal palco della Red Wine, ha risposto con un sorriso impacciato, un saluto, e un gesto gentile che è diventato la "V" con indice e medio che mezzo secolo fa i freaks di tutto il mondo usavano per salutarsi. Lui era su una collinetta in tenda, a Woodstock, e pare che il volume di suono fosse così possente, nella vallata, che per tre giorni e tre notti chi aveva voglia di ascoltare poteva davvero seguire tutto, sonno e altre attività varie - lisergiche ed eventuali - permettendo. Ogni celebrazione mezzo secolo dopo rischia di incrociare fatalmente le tristi piste del reducismo. S'è presa un bel fardello la Red Wine, invece, a costruire pezzo su pezzo, con tanto a ironia, tanta sapienza e tanta voglia di mettersi in gioco l' "altra Woodstock", in scena al Teatro della Tosse sabato, undicesima edizione del Bluegrass Party.
La scelta vincente è stata quella di non cadere nella trappola della citazione brano su brano: si rischiava la saturazione per noia. Invece, con un bel guizzo da pesci navigati che sanno ancora risalire la corrente i quattro (cinque se mettete in conto l'ormai indispensabile apporto di Davide Zalaffi) hanno voluto ricostruire l'humus musicale, la pasta sonora che ha fatto grande un'epoca e può sfidare ogni nostalgia. Perché Woodstock e dintorni hanno lasciato sedimentare una coltre di note che oggi si ascoltano con piacere (e qualche luccicone, per chi ha i capelli grigi), e forse anche qualcosa in più: il gusto della storia. Dunque Woodstock, com'è stato anche ben narrato dal palco, è stata anche la Woodstock di chi non c'era: come Joni Mitchell, che ha scritto il meraviglioso brano che prende nome dal Festival, e che la tre giorni se la fece raccontare dall'allora compagno Graham Nash.
Non c'erano neppure gli Youngbloods, a Woodstock: per ragioni brutalmente economiche la grande band di Jesse Colin Young e Lowell "Banana" Levinger era stata dirottata su un bar scalcinato a Baltimora, e così fu. Però Banana è vivo e vegeto, un po' acciaccato, ma con la stessa nuvola di capelli che aveva quando era con i suoi sodali hippie Youngbloods, solo che il nero è diventato un bianco candido. Per il resto è un vecchio ragazzo che viene spesso in Italia, che suona con Little Steven, e che agli amici della Red Wine ha portato in dote un bel po' di brani che restituiscono il profumo tenace del grande sogno libertario di quegli anni: ad esempio Hippie From Olema, un brano che gli Youngbloods scrissero per rispondere, punto su punto, alla devastante retorica reazionaria di Okie From Muskogee di Merle Haggard, invitando all'amore e al rispetto degli altri, non ai fucili puntati e all'odio facile come rimedio per tutti mali (ricorda qualcosa?). E poi Get Together, uno di quegli inni che entrano in testa una volta, e non escono più di lì, anche se diventate adepti del Ku Klux Klan.
Alla Red Wine il compito di trattare, da par loro i brani: Se non credete che Hey Joe a rappresentare la performance di Hendrix, Friend of the Devil a richiamare i Grateful Dead, e With A Little Help From My Friends nella versione di Joe Cocker possano conoscere anche una singolare chirurgia estetica Bluegrass, chiedete a chi c'era. E Già che ci siete chiedete conto dell'eleganza di avere sul palco Levinger, il clarinetto e il sax di Francesco Bencini e, in chiusura, la solida prestanza della chitarra di Paolo Bonfanti. Il tutto incorniciato dai magnifici disegni in tempo reale di Roberto Zizzo, che lavorava su foto d'epoca, e da una bella parentesi in medley per ripercorrere, a tambur battente, cosa succedeva in Italia mentre oltre oceano si srotolava il lungo nastro umido di pioggia, di fango e di arcobaleni di Woodstock. (Guido Festinese)
(foto: Giovanna Cavallo)