Intanto erano tre (Three) e si chiamavano “Cinque” (Five). Pianoforte, basso e batteria, per una delle proposte pop (in senso lato) più originali del decennio appena trascorso. Poi erano dei nerd, secchioni diremmo noi, cantavano le afflizioni qualunque di chi (sul serio o per gioco) non riesce a integrarsi, a rientrare nelle categorie del vincente e del realizzato. “Mai stato fico / a scuola” è il primo verso del singolo Underground. Eppure la musica dei Ben Folds Five, come l’opera di altri magnifici perdenti (i film di Woody Allen, i personaggi di Nick Hornby) è riuscita a lasciare un segno profondo in quanti l’hanno incrociata. Musica semplice, per via della formazione ridotta all’osso e della scrittura immediata; canzoni che, piccola e banale rivoluzione, facevano a meno della chitarra, primadonna del rock indipendente e non. Dentro a questo omonimo esordio (seguiranno due album prima che il leader Ben Folds imbocchi la strada solista) trovate polke improvvisate, ballate romantiche, rumorose esplosioni; tutto filtrato dalla penna ironica e pungente di Ben. È un disco che si ascolta e si riascolta, sempre a cuor leggero, finché non diventa una presenza costante, intima e lieve come un’amicizia.
Quello che, a distanza di un decennio, prova senza mezzi termini la grandezza umile di questo disco è il fatto di essere, pur in mezzo all’oceano di esordienti e novità cui è abituato il mercato musicale, ancora senza imitatori o repliche. Il suo suono e il suo passo sono una cifra personale ed esclusiva che incontrate solo e solamente nelle pieghe di “Ben Folds Five” (e dei suoi fratelli minori). Da nessuna altra parte. (Marco Sideri)