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Ogni mattina, tra una notizia e l'altra, la milanese Radio Popolare manda in onda frammenti di una famosa composizione dei Weather Report, la celebre "Black Market", title track dell'omonimo ed epocale album Columbia del 1976.
"Black Market" segna un passaggio importante, fondamentale, probabilmente decisivo, nella storia della popular music, anche se in realtà tutti i componenti di quello straordinario gruppo provenivano da una formazione jazzistica, perfezionatasi, nel caso di Joe Zawinul e Wayne Shorter, all'interno della fucina di talenti davisiana, ma il jazz (si sa) è una sorta di musica d'arte situatasi nel tempo fra un "mediato folk urbano" e una vera e propria accademia afroamericana, almeno a far data dalla metà degli anni '40 del secolo scorso. Perché, in effetti, è a partire sostanzialmente da quel momento (stiamo di nuovo parlando del '76), complice anche una suggestiva copertina (anche qui) molto davisiana, e l'ingresso in formazione di un ottimo e stilisticamente personale polipercussionista portoricano (Manolo Badrena), che si comincerà a parlare non più di fusion, la classica emulsione fra jazz e rock di fine anni '60 inizio '70 del secolo scorso, inaugurata dall'"In A Silent Way" (di nuovo) davisiano, ma di world music. Una world music intesa sia come integrazione fra molteplici culture musicali (la propria e le altre), che ha contribuito ad una nuova sensibilità nei confronti delle musiche (diciamo) etniche o tradizionali di tutto il mondo, culminata, per esempio, nell'elaborazione di progetti interessanti e meritori, come la fondazione (nel 1989) della celebrata etichetta Real World di Peter Gabriel (votata alla scoperta e promozione delle più svariate musiche del globo), sia come la possibilità di costruire nuovi paesaggi sonori, ideali, possibili, immaginari, addirittura fantastici (una strada da tempo molto percorsa).
Il jazz, lo sappiamo, è di per sé una world music, originata dalla commistione e dall'incontro fra più culture musicali avvenuto in circostanze storiche del tutto particolari, e non che fino a lì (per altro) non si fosse sviluppato anche uno specifico filone etno jazz, pensiamo solo che ai dischi di Don Cherry o ai profumi etnici negli album di un musicista come Yusef Lateef; ma gli esempi sono innumerevoli, a partire (e non solo) dalla collaborazione tra il percussionista cubano Mario Bauza e il trombettista Dizzy Gillespie, occorsa verso la fine degli anni '40 del '900. E allo stesso modo nella popular music occidentale l'ingresso di suoni dell'altrove (l'oriente in generale, spesso l'India in particolare: l'Africa in qualche modo era già stata assimilata, anche inconsciamente) è certo avvenuto ben prima del 1976, basti pensare ad album apripista in questo senso come "Revolver" dei Beatles o "Aftermath" dei Rolling Stones (datati entrambi 1966), solo per fare due esempi tra i più facili e noti, e senza scomodare i più colti Oregon o citare (per esempio) gruppi meno conosciuti come i Kaleidoscope, per altro giunti entrambi successivamente, anche se di poco.
Ma è proprio a partire da "Black Market" (e forse per un puro accidente della storia), affresco, o meglio sfumata impressione in musica di una sorta di multicolore mercato africano, costruita dall'intreccio di suoni acustici ed elettrici dal particolare carattere esotico, introdotta da quell'iniziale insieme di voci dialettali sovrapposte (una trovata sonora che, mutate le cose da mutare, verrà ripresa anche da Fabrizio De André, quasi dieci anni dopo, nell'elaborazione della sua "Creuza De Ma" e di un ideale suono mediterraneo), che il concetto di world music farà il suo definitivo ingresso nella definizione critica di certi fenomeni musicali, fungendo anche e soprattutto da nuovo approccio operativo per una serie infinita di artisti (si pensi solo che al leggendario "Graceland" di Paul Simon del 1986, con protagonista il coro sudafricano dei Ladysmith Black Mambazo), e trovando così in qualche modo, in positivo e in negativo, una sorta di sua istituzionalizzazione.
In negativo perché, in effetti, world music è un concetto troppo scivoloso, vago, generico e sfuggente (tutta la musica realizzata sul pianeta è ovviamente musica del mondo), che nel tempo si è portato con sé più limiti che pregi, a partire dal fatto che spesso è risultato solo essere una semplice etichetta da appiccicare sugli scaffali dei negozi di dischi (quando ancora se ne vendevano), per indicare musiche anche scadenti che fingevano, lucrandoci, una qualche sensibilità "etnica" priva di reale sostanza, anche se (intendiamoci) per lo meno in giusta opposizione al solito eurocentrismo dominante. Perché, ovviamente, uno dei problemi centrali nella cultura euroatlantica è sempre stato il presuntuoso, miope ed escludente eurocentrismo piuttosto che l'etnocentrismo radicale e minoritario di certi antropologi (ecco la parte positiva di tutta questa vicenda).
Ma le intenzioni e le intuizioni dei Weather Report, al di là di una buona dose di "fiuto imprenditoriale", in grado di cogliere, come un buon termometro, la temperatura del tempo, se non il suo "spirito", e d'altronde (altrimenti) non si sarebbero chiamati "bollettino meteorologico"- si consideri in questo senso anche la struttura semplice, immediata, facilmente ricevibile, di "Black Market", costruita dalla successione di una strofa e un ritornello, apparentemente elementari, senza alcuna particolare articolazione formale, nessuna vera digressione improvvisativa -, erano fondamentalmente autentiche e lodevoli, tanto che su quella strada il gruppo ha poi sostanzialmente proseguito, anche quando il vento ha cominciato a soffiare decisamente verso una vuota e inconcludente musica sintetica, buona per i video musicali degli anni sciagurati e bruciati della "Milano da bere". Soprattutto Joe Zawinul, il leader e tastierista, che negli anni '80 sarà il fondatore del famoso Zawinul Syndicate, espressione di un solare ed avvincente etno jazz rock, attento alle più svariate tradizioni musicali.
Per tutto questo, probabilmente, Radio Pop manda in onda ogni mattina la loro splendida, intelligente e (diremmo) geniale musica, simbolo di un'integrazione da valorizzare e perseguire. (Marco Maiocco)
Quando Underwater Moonlight uscì (anno 1980), lo si definì barrettiano e lo si trovò legato a referenti all’epoca demodé quali Beatles, Byrds, Beach Boys e la psichedelia sixties. Nei Soft Boys stupivano in particolare quelle ‘cose’ che per la dominante – ma già declinante - estetica punk erano fantascienza o barzelletta: le armonie vocali (per non dire del nome del gruppo: ‘soft boy’ termine slang derivato dal patois giamaicano che significa finocchio oppure effemminato). Il disco tuttavia piacque a molti, sia perché l’aria stava comunque cambiando sià perché alcune canzoni (la title-track, I Wanna Destroy You, Positive Vibrations) erano perfetti hit alternativi. Trent’anni dopo e in tempi di citazionismi che viaggiano come elettroni impazziti possiamo dire che la sghemba verve dell’album suona fascinosamente atemporale, le canzoni restano quasi tutte strepitose e l’influenza su molta musica successiva, dai R.E.M. agli Yo La Tengo ai Weezer è parecchio evidente. Diversi commenti recenti mettono in evidenza come il nervosismo punk avesse comunque influenzato, se non lo stile, almeno la velocità dell’esecuzione dei pezzi e una certa attitudine un po’ isterica. Probabile che le cose stessero così, ma l’ascolto dell’abbondante materiale extra di questa ristampa in triplo cd dice che ‘Hitch’ (così come il suo sodale Kimberley Rew) era una spugna capace di assorbire anche influssi in apparenza alieni quali i Doors (Wang Dang Pig) o addirittura la ballata folk (la prima versione di Underwater Moonlight) per riproporli all’interno del suo mondo visionario e sempre in bilico fra fiaba e incubo. (Antonio Vivaldi)
Due anni prima l''album azzurro' era stato un successo inatteso, cinque anni dopo l''album verde' avrebbe ottenuto riscontri quasi altrettanto clamorosi. Uscito nel 1996, Pinkerton è stato a lungo considerato il passaggio debole della prima parte di carriera dei Weezer, sia per le vendite modeste sia per una stroncatura clamorosa apparsa sulle pagine di Rolling Stone ("il peggior disco dell'anno"). Il tempo e l'innata tendenza revisionista del rock nel giudicarsi l'hanno trasformato in uno dei dischi simbolo degli anni '90, oggi ristampato in edizione deluxe. Rispetto al tripudio indie-pop tra Pavement, Pixies e Cheap Trick dell'opera d'esordio, Pinkerton (molto vagamente ispirato alla Madame Butterfly di Puccini) è album più nervoso e distorto che mette in scena soprattutto le psicosi da nerd'con troppi pensieri di Rivers Cuomo, il leader del gruppo. Se un paio di ascolti dell'album ufficiale riportano in scena l'acre vitalità di canzoni quali Pink Triangle e The Other One, alcune bonus tracks acustiche rivelano come le composizioni di Cuomo, più che ai nomi prima citati, possano essere accostate al melodismo inquieto del miglior Alex Chilton. Come a dire che gli americani migliori sono in genere quelli più complicati. (Antonio Vivaldi)
Sempre più spesso ci si trova a parlare di ristampe. Tralasciando considerazioni banali sullo stato di salute della musica contemporanea, e sul mercato che la diffonde, è facile notare come dai capolavori del passato ci si spinga in modo sempre più sfacciato verso recuperi “recenti”. Dischi magari vecchi di 6 mesi tornano fuori espansi e a prezzo ridotto, alla faccia dei gonzi che li hanno comprati al primo giro. Detto questo, “Thank You” si appoggia sul confine temporale della ristampa vera e propria. Uscito nel 95 per Virgin, era (è) il primo atto dei Royal Trux normalizzati. Dopo le sperimentazioni degli esordi, qui il marciume rollingstoniano di Jennifer Herrema e Neil Hagerty prende forma di ballate sbilenche ma pur sempre canoniche, pervase dal fascino tossico e precario del duo. Elettricità sfilacciata per nostalgie d’altro bordo. (Marco Sideri)
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