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RED WINE - BLUEGRASS PARTY  11

L'Altra Woodstock 1969 - 2019 Teatro della Tosse

In sala c'era anche un signore che a Woodstock c'era stato davvero. E che, salutato dal palco della Red Wine, ha risposto con un sorriso impacciato, un saluto, e un gesto gentile che è diventato la "V" con indice e medio che mezzo secolo fa i freaks di tutto il mondo usavano per salutarsi. Lui era su una collinetta in tenda, a Woodstock, e pare che il volume di suono fosse così possente, nella vallata, che per tre giorni e tre notti chi aveva voglia di ascoltare poteva davvero seguire tutto, sonno e altre attività varie - lisergiche ed eventuali - permettendo. Ogni celebrazione mezzo secolo dopo rischia di incrociare fatalmente le tristi piste del reducismo. S'è presa un bel fardello la Red Wine, invece, a costruire pezzo su pezzo, con tanto a ironia, tanta sapienza e tanta voglia di mettersi in gioco l' "altra Woodstock", in scena al Teatro della Tosse sabato, undicesima edizione del Bluegrass Party.

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RED WINE - 10° Bluegrass Party

Teatro della Tosse 17 novembre , Red Wine, 10° Bluegrass Party
Partiamo dalla coda (del concerto), che secondo il proverbio latino dovrebbe portare il veleno, e invece, trattandosi di galantuomini della musica dotati di superiore e calviniana leggerezza ha portato parecchia commozione e un surplus di emozione per una serata già di per sé carica di emozioni. E' successo che, in chiusura, la Red Wine ha cominciato a intonare una ballata dolente che sembrava uscita dalla penna pensosa di Luigi Tenco. Però non poteva essere, materialmente, di Tenco. L'ha scritta invece il cantautore Silvano Chidda, la Red Wine l'ha saputa raccogliere, ed ecco il miracolo laico di un pugno di parole asciutte, dirette, senza alcuna concessione al sentimentalismo, e che arrivano diritte come mazzate, come i blocchi di cemento che cadevano dal Morandi, all'improvviso, quella mattina il 14 agosto. Bella scelta. E poi una Stand By Me corale, quindici persone sul palco. In più ( ed era uno dei fatti caratterizzanti della serata) su un grande schermo alle spalle dei musicisti apparivano, in tempo reale , i disegni a commento dei brani dai pennelli scaltriti dello scenografo – artista Roberto Zizzo, uno spettacolo nel solito (grande) spettacolo che ogni anno propone il gruppo veterano. A proposito di veterani delle note e celebrazioni : il numero Dieci del Bluegrass Party era ovviamente un bel traguardo, ma in più c'era da festeggiare anche il quarantennale della band, traguardo già difficile per chi molto concede al mercato delle note leggere, figurarsi per chi suona bluegrass in Italia: una cosa facile e probabile come essere maestri quarantennali della pizzica tarantata all'Università di Tuva dove studiano canto difonico.

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ACOUSTIC NIGHT 18 / BEPPE GAMBETTA

Teatro della Corte - 3 – 6 maggio

A volte certe piccole verità scomode bisogna imporsele: che da tempo sia in corso una sorta di museificazione letale della figura di Fabrizio De André è un fatto tanto triste quanto, forse, inevitabile. Non certo "naturale". Da che mercato è mercato, ad esempio. De André in teche museali, De André sceneggiato televisivo. Oggetto di racconti, di fumetti, di cartoons. Nulla di male, spesso. Molto di artistico e sincero, altrettanto spesso. Non è detto che tutte le buone intenzioni finiscano per costruire i lastricati dell'inferno, come dice il proverbio. E poi De André proprio non ci credeva, all'inferno, convinto com'era che se un inferno esiste, è quello che creano gli uomini per altri uomini, visto che, ( traduciamo da Crêuza) "Il diavolo è in cielo, e ci s'è fatto il nido". Però il sospetto che un pezzetto di De André non si neghi a nessuno è forte, visto che ambigue figure politiche fino a ieri con la bava alla bocca per difendere inesistenti confini identitari del Nord ora lo citano a sproposito, forse non avendo mai avuto il tempo per leggere cosa davvero significhino certi testi del poeta libertario con la chitarra. Tanto preambolo per dire che c'è un modo per onorare De André senza venerare i marmi funebri: suonarlo, il più possibile. E siccome il raggio d'azione di De André (che pure era un viaggiatore fisico non entusiasta) era il mondo, e tutte le storie belle e atroci che il mondo contiene, De André va sporto sul mondo. Beppe Gambetta da molti anni quando è in giro per il mondo ad ogni occasione fa ascoltare qualche canzone di De André. Adesso ha fatto il percorso inverso, e magnifico: ha convinto il mondo a cantare de André. La diciottesima edizione della sua Acoustic Night al Teatro della Corte ha portato sul palco i tedeschi Felix Meyer e Erik Manouz, il canadese James Keelaghan e lo scozzese Hugh McMillan. Senza dimenticare il genovese contrabbassista Riccardo Barbera. A tutti, con mesi di lavoro dietro per preparare poi due ore di spettacolo incantato: nei contenuti, nella forma delle scenografie di Sergio Bianco ispirata alla "Guerra di Piero":grano come pentagramma, plettri come garofani rossi. "De André è patrimonio dell'umanità", ha spiegato dal palco Gambetta. Ed è vero. Perché ascoltare il "recitativo" da Tutti morimmo a stento in tedesco, Volta la carta in inglese, il Gorilla riportato alle atmosfere da Francia profonda di Brassens, il Matto di Non al denaro, non all'amore né al cielo in inglese, così come una rotolante Volta la carta nella lingua di Dylan è una grande esperienza. Svela un segreto piccolo ed enorme assime: De André funziona in ogni lingua, se ci sono mani esperte sugli strumenti, cuori limpidi nell'affrontarlo, voglia di far propri quei testi che prendevano sempre la parte degli ultimi. Le "mulattiere di mare" possono srotolarsi anche tra le querce del Canada, o nella Foresta nera: basta volerlo. E non pensare che De André sia un santino da altare, né un espediente per cavarne, come si direbbe aGenova, "franchi a brettio". (Guido Festinese)

(Foto, Giovanna Cavallo)

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RED WINE - BLUEGRASS PARTY n° 9

RED WINE - BLUEGRASS PARTY n°9
West Coast Girls
Teatro della Tosse, 25 novembre

Un buon vino rosso non invecchia: prende corpo, sostanza, sfumature di aromi che non si pensava potessero nascondersi tra le pieghe e gli archi luminosi che la bevanda lascia sul bicchiere che ruota. Un buon vino rosso è tutto quanto era alle origini, e parecchio di più: come una persona che abbia avuto una buona educazione in una materia, e, qualche decennio dopo, te la ritrovi davanti dotata di ironica, ben meditata sapienza, leggera e consistente al contempo. Red Wine è, appunto, un buon vino rosso. Il bluegrass delle origini (ormai sono quasi quarant'anni!) per la band di Coppo e Ferretti non s'è annacquato: vive come collante e struttura di quanto questa magnifica band riesce ad incorporare: Ed è molto, moltissimo. Lo sappiamo dai Bluegrass Party, le feste annuali che il gruppo, ormai assestato su una solida formazione a quattro + uno, si direbbe in gergo para calcistico, ogni anno offre alla città e a chiunque abbia voglia di passare due ore di "good time", come direbbero dall'altra parte dell'Oceano. Dunque i due Ferretti, padre e figlio, Lucas Bellotti al basso, marcatempo ironico ed affidabile della squadra, Davide Zalaffi alla batteria, uno che quando non suona musiche di tutt'altro genere si diverte come un pazzo a vellicare le pelli sull'incalzante tempo in due scandito dal basso. Bello che il Party di quest'anno al Teatro della tosse cadesse esattamente nel giorno in cui si invita il mondo a riflettere sulla violenza contro le donne: c'è un altro mondo possibile, quello della musica vera, dove invece le donne regalano dolcezza e potenza e sono se tesse senza nulla dover temere da chi ha accanto. Dunque quest'anno ospiti al femminile: la prima,Kathy Kallick, eccellente songwriter chicagoana maturata musicalmente nella zona della Bay Area di San Francisco, che della "windy town" conserva una punta aprigna e bluesy nella voce, e di San Francisco un'attitudine a narrare con evidente passionalità. La seconda, Annie Staninec, che a dispetto di nome e cognome ha fattezze delicate da fatina orientale, e che invece quando imbraccia il violino è un folletto monello che sorprende ad ogni cavata, tale e tanto è l'entusiasmo e l'evidente gioia di suonare. Qualche "highlight" dal nono party, fatto presente che l'emozione pura ha aperto e chiuso il concerto, con due magnifiche scelte dal repertorio dello sfortunato Tom Petty, scomparso di recente? Difficile scegliere. Ad esempio una eccellente canzone scritta dalla Kallick quando riuscì a far visita al padre fondatore del bluegrass, Bill Monroe, e lui le raccontò che prendeva ispirazione dagli ululati dei suoi cani: così nacque "Fox Hounds". O Fiddle & Bow, pregiata ditta Red Wine, affrontata da Annie con grazia sorridente e spiritata assieme sul suo violino. O ancora Tear stained Letter, pregiata ditta folk rock Richard Thompson, 1983: la incise anche Kathy Kallick e l'ha fatta sua. E la presenza discreta ma, al solito, imponente, di Paolo Bonfanti sul palco ha aggiunto tutto il pepe elettrico che la Red Wine spesso ama spargere sull'impianto acustico. Il momento più toccante? Quando la Kallick ha voluto cantare, in italiano, la "Canzone dell'amore perduto di De André". Nel buio della sala hanno brillato parecchie lacrime. (Guido Festinese)

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Paolo Fresu Devil Quartet al 54° Festival Internazionale della Musica da  Camera di Cervo - 5 agosto 2017

È una calda, tignosa sera d’estate, ma a Cervo, l’affascinante  borgo in provincia di Imperia, il pubblico affolla boccheggiando la piccola piazzetta dei Corallini, dominata da una delle chiese più verticali della Liguria. Il concerto molto atteso del Devil Quartet di Paolo Fresu, nell’ambito del 54° Festival Internazionale della Musica da Camera, parte al chiaro di luna, ma presto i quattro musicisti fanno convergere l’attenzione verso il palco; lì una straordinaria intesa regala al.pubblico un’esibizione superba che non si dimenticherà facilmente. Al di là della efficacissima sezione ritmica, formata dal contrabbasso lirico di Paolino Della Porta e dalla batteria spesso in punta di spazzole di Stefano Bagnoli, il concerto ha avuto come leit-motiv il continuo duello tra la chitarra di Bebo Ferra e la tromba e il flicorno del leader; sarà che tra due sardi, magari di paesi differenti, un minimo di sana rivalità va sempre messa in conto e due sembrano giocare molto su questo aspetto, tra sguardi, sorrisi e ammiccamenti verso il resto del gruppo. Il repertorio è soprattutto composto in proprio, ma con qualche cover di spessore, come l’infuocata (I Can’t Get No) Satisfaction di Jagger-Richards, un Gershwin di cui ci è sfuggito il titolo e la piacevole E Se Domani resa celebre da Mina. Robusta anche la durata della serata, intorno alle due ore con un doppio bis: prima le due Ninne Nanne che chiudevano l’ultimo disco del gruppo, Desertico, poi, sentito l’applauso insistente del pubblico, il ritorno sul palco con  una inaspettata versione, molto gradita, del tema di Un Posto Al Sole, la fiction storica della Rai che tutti più o meno hanno seguito, per piacere o per forza maggiore… Per finire segnaliamo che il gruppo presto uscirà con un nuovo lavoro, che gli stessi hanno definito progetto acustico; restiamo in attesa, trepidanti, ma con la certezza  di non venire delusi da questo gruppo, che forse è la più felice delle mille configurazioni con cui Paolo Fresu calca i palchi di mezzo mondo per più di sei mesi all’anno! (Fausto Meirana)

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RED WINE & OSPITI - Bluegrass Party 8

Teatro della Tosse , sabato 26 novembre 2016

Pare che qualcuno abbia detto a Martino Coppo della Red Wine: “Ma perché continuate a chiamarlo Bluegrass Party?”. Già, è preoccupante abitudine di ogni appassionato di un ramo particolare delle musiche afroamericane (bluegrass compreso, dunque, e ci mancherebbe) di ergersi a giudice etico ed estetico della conformità ortodossa di un genere a propri supposti e inalterabili confini. Confini ovviamente stabiliti da chi ritiene praticare l'ortodossia già nominata. Un po' come quando i seguaci del neoprog accusano certe band contemporanee di essere poco derivative dai  grandi degli anni Settanta, o troppo, o certi jazzofili stabiliscono patentini di autenticità ai jazzisti in base a una loro concezione di ciò che deve essere jazz e ciò che non lo è. Ad esempio con la caratteristica mitica del “tasso di swing contenuto”. Liberi di pensarla così, ma si manca in pieno il senso di queste musiche: che nascono spurie e meticce, che sono spugne idrovore di ogni arricchente liquido nutritivo , e per fortuna continuano allegramente ad esserlo, alla faccia e per lo scorno dei puristi . Dunque, qual era la lesa maestà bluegrass di questo ottavo Party, nello specifico? di essere dedicato ai songwriters, ai cantautori, diciamo noi. Bella razza di “tradimento”, no, visto che il bluegrass vive e respira di canzoni, bluegrassizzate quanto si vuole!. Ed ecco allora ospite sul palco (e finalmente, dopo i guai dello scorso anno) Shane Sullivan, un cantautore di Dublino ben esperto di altre “eresie”: ad esempio nel  conservare l’impronta melodica della sua isola, nell'essere parecchio sporto su piacevolissimi lidi folk rock, con punte insaporenti di country music e pop a legare il tutto. Ottima scelta, per una serata incorniciata, all'inizio e alla fine, da due quasi “doverosi”  tributi a songwriter senza confini: il Bob Dylan fiammeggiante di “You Ain't Going Nowhere”, che con elegante mossa “trasfigurava” da uno schermo dietro ai musicisti alle note “vere” della band, il Leonrad Cohen dolente e sublime di “Hallelujah”, eseguita dalla band con le sole voci e una chitarra.  Il concerto, oltre alle fresche energie di Sullivan, di cui sentiremo senz'altro riparlare, ospitava al solito altri bei talenti, non considerando più “ospite” il grande Davide Zalaffi alla batteria: Roberto Bongianino dalla Paolo Bonfanti Band alla fisarmonica, Paolo Ercoli a dobro e pedal steel, presenza tanto discreta quanto raffinata e deicsiva, nella scelta melodico-ritmica del suo accompagnamento, Francesco Bellia al pianoforte, Fabio Biale dei Liguriani a violino, voce, percussioni, Pierrrete Berentzen alla voce. Qualche picco del concerto? Ad esempio nella impressionante versione in “bluegrass – samba” di “Arriu”, quella splendida “Ma se ghe pensu” al contrario che s'inventò Natalino Otto tanti anni fa, con gustosa autoironia. Oppure la versione rotolante e rutilante de “Il bandito e il campione”, o ancora la sinuosa “Under African Skies” pregiata ditta Paul Simon. Un brano di Sullvan da ricordare? Ad esempio “Make My Day”. Quasi epitome di quanto di bello ci lasci la Red Wine: il “risolverci la giornata” con un bagno di buona musica ed eleganza comunicativa senza affettazione che vorremmo avere più spesso. (Guido Festinese)

Foto di Michele Mannucci

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