Concerti
La notte fuori dal Palaolimpico di Torino è fredda, l'aria pungente s'insinua sotto i giacconi e i fan in fila cercano di ridere e di muoversi per scaldarsi, le mani sprofondate nelle tasche in attesa della fatidica apertura, che per fortuna arriva in orario. Gli inglesi Mcbees, special guest della serata, non sono niente di eccezionale. A parte qualche trovata strumentale azzeccata, sembrano un po' troppo piatti e monocordi, appiattiti su un indie rock sterile, forse per colpa della voce lamentosa di Orlando Weeks. In compenso i Black Keys sono sorprendenti. Non ho mai sentito un muro del suono così potente e ben strutturato, un impatto ritmico così coinvolgente con la batteria di Patrick Carney sempre al centro della scena, con l'aggiunta discreta del basso e della tastiera. Dan Auerbach lascia che i riff si sfilaccino, sospesi dentro le pause ben calcolate, ma poi li riprende un attimo prima che muoiano, traendone nuova energia. Tutto il pubblico si scatena con i ritornelli orecchiabili dei pezzi più famosi, semplici, accattivanti e onomatopeici eppure con tutta la perizia tecnica di un'ottima alternative band. Di fronte a me ho una folla che salta a tempo – la marea è punteggiata dalle luci digitali dei telefonini e da quella più romantica e tradizionale degli accendini; mi volto e dietro di me lo spettacolo è simile, ma forse ancora più impressionante perché lo vedo dal basso, con una prospettiva schiacciante. A ogni giro di chitarra, migliaia di piedi battono all'unisono nel parterre gremito, nelle tribune e persino in alto – nelle "piccionaie" – dove di solito non c'è nessuno perché la visuale è pessima. Le immagini scorrono frammentate sugli schermi. Motivi a pois sgranati e onde acustiche scure stile anni Settanta, paesaggi di desolazione urbana e strade polverose congiungono le due anime del gruppo: la venatura blues, vagamente psichedelica, e la desertica propensione al viaggio (sia spaziale sia mentale), collocano il gruppo a metà strada tra i grandi maestri (Led Zeppelin, Rolling Stones, ZZ Top) e le voci più ruspanti della scena garage (Josh Homme, i Cramps o i Clash). La gente impazzisce letteralmente ai primi accordi di Lonely Boy, che ha scalato tutte le classifiche rendendo il gruppo conosciutissimo anche nei circuiti meno chiusi, e ciascuno imita a modo suo il ballo del video – diventato un tormentone persino su MTV. In effetti, le persone che ho intorno non potrebbero essere più eterogenee: ragazzi in Converse e camicia a quadri e ragazzine pulite e con gli occhiali affianco a tipe che si mettono in mostra; signori di una certa età – già un po' brizzolati – e personaggi vestiti da mod. Tutti sono presi dalla magia e intonano i versi struggenti di Little Black Submarines ("... Everybody knows / That a broken heart is blind"), prima di essere di nuovo risucchiati nelle atmosfere martellanti di Money Maker. I bis sono un altro tuffo nel puro incanto del live, con gli specchi rotanti di una merking ball gigante che promettono una dolcissima Everlasting Light. La performance si chiude con le note strascicate di I Got Mine ma, una volta usciti, i giovani che si accalcano alle bancarelle e quelli che s'incamminano verso la stazione continuano a canticchiare un ritornello che si è attaccato al cervello e non se ne andrà, almeno per un paio di giorni. (Elena Ansaldo)
Il ritorno dei Calexico in Italia, che coincide con la recente uscita di Algiers, il convincente nuovo capitolo del gruppo guidato da Joey Burns e John Convertino, si materializza in questa serata all’ Alcatraz di Milano; temperatura primaverile fuori, caldo torrido stile Arizona sia sopra che sotto il palco della discoteca milanese. I due leader sfoggiano delle americanissime camicie a quadri, ma mentre Burns cerca lo spot come frontman, con quella faccia pulita da bravo ragazzo americano, la gran parte del pubblico sembra convergere, con lo sguardo, verso il compassato e preciso drumming di Convertino, occhiali da intellettuale e malcelate sembianze di bracciante del sud. La set list risulta piuttosto inchiodata verso l’ultimo periodo, con frequenti scodate ‘latine’ guidate dalle trombe di Jacob Valenzuela e Martin Wenk. Negli ultimi concerti, peraltro la band si dedica anche ad eseguire una serie di cover, che, nella serata milanese sono state ‘Corona’ dei Minutemen, ‘Alone Again Or’ dei Love e persino ‘For Your Love’ degli Yardbirds, durante la quale anche il compostissimo batterista perde finalmente un po’ del suo aplomb professorale, uscendone pure un po’ spettinato…Un’ottima performance, dunque, compresi i tre pezzi regalati come bis e terminata in un opportuno controtempo con la delicata ‘The Vanishing Mind’, per poi salutare il pubblico col grido ‘…the best concert ever!’ come, probabilmente, succede tutte le sere. (Fausto Meirana)
foto: Meirana
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