Nato a Città del Messico, cresciuto musicalmente al Berklee college di Boston e poi alla corte di Pat Metheny, Antonio Sanchez ha perforato il muro della ristretta audience jazzofila con la partecipazione al film di Alejandro González Iñárritu “Birdman”, di cui ha curato anche la colonna sonora. Ora prova ad abbattere altri muri, quello drammaticamente autentico che corre lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, e quello dell’ipocrisia nei confronti dell’immigrazione, un tema universale e contemporaneo su cui il batterista si è pronunciato fin dal suo primo disco per la CamJazz nel 2007 intitolato proprio “Migration”. Come scrive sul suo sito “Questo album parla dell'esperienza degli immigrati. Questo album non parla di me o di immigrati come me. Questo progetto parla dell'immigrato che è stato costretto a fuggire a casa per paura, persecuzione, guerra e carestia. Si tratta del tipo di immigrato costantemente demonizzato, ostracizzato e politicizzato da pochi potenti in nome di un nazionalismo fuorviato che sta rapidamente erodendo una qualità fondamentale negli esseri umani: la capacità di provare amore per le persone che hanno un aspetto diverso da noi fare ed empatia per le persone meno fortunate di noi. Questo album parla di loro e del loro viaggio”.
Ci sembrava doveroso riprendere le sue parole prima di concentrarsi sulla musica di questo quintetto composto da John Escreet alle tastiere e al pianoforte, da Matt Brewer al basso acustico ed elettrico, Chase Baird al sax tenore e all’Ewi e da Thana Alexa alla voce. Un intro drammatica tra suoni di sirene e urla di sdegno (“Shame on You”) ci conduce alla prima suite del disco, “Travesía”, un brano di venti minuti costruito alla maniera Pat Metheny Group, su un giro di pianoforte molto minimale, che culmina in un crescendo ricco di pathos e drammaticità, accentuato dagli interventi della viola di Nathan Shram e del violoncello di Elad Kabilio. I tre brani che seguono spaziano dal lirico “Long Road” al jazz-rock anni ‘70 innervato da moderne linee prog di “Bad Hombres Y Mujeres”, alla sognante e malinconica “Home”. Infine i ventisei minuti di “Lines In The Sand” che comprende parti del poema ‘At the Wall, US/Mexican border, Texas 2020’ scritte e lette da Paola Gonzalez e Karla Gutierrez oltre che il recitativo finale, ‘Blood Country (after Safia Elhillo)’ di Jonathan Mendoza. Disco complesso e di grande spessore, che richiede un ascolto attento e partecipato: ma gran disco! (Danilo Di Termini)