
Si potrebbe discutere per secoli su cosa sia “un capolavoro” in musica, su cosa lo renda tale. Di certo i dischi che ambiscono a vario titolo a questa definizione sono pochi. Sono rari perché è sempre più raro un disco “tutto bello”, dove sia un’unica visione ad essere cantata. Coerente dalla prima all’ultima nota, intensa e forte perché unica e irripetibile. “Either/Or”, perdonate l’ardire, è un capolavoro. Un disco fatto di poco, chitarra e voce perlopiù, capace di raggiungere picchi fragili e perfetti. Stilettate acustiche al cuore che si susseguono senza tregua; poco più di mezz’ora per far crollare davanti ad un’intimità eccezionale ogni difesa critica. Elliott Smith rimane un nome “minore”. Lontano dalla grande fama e dall’immenso pubblico. Le sue melodie e i suoi versi di una purezza insieme dura e timida. La voce quasi un sussurro eppure decisa e secca. Il ritmo un fantasma eternamente indeciso se rivelarsi o rimanere nell’ombra. In una modernità tanto avara di “cantautori” puri, menestrelli sperduti per indicare un abbozzo di cammino, Elliott si è rivelato come nome fondamentale, sfiorando anche il colpaccio (on oscar, nientemeno, in curriculum) ma ritirandosi sempre in ultima istanza nel suo mondo, nella sua visione. Dei cinque dischi pubblicati, “Either/Or” sarà, con ogni probabilità, quello che andremo a ripescare tra dieci venti o trent’anni, quando le mode saranno cambiate e ricambiate mille volte, portando con sé decine di “capolavori” passeggeri. Elliott Smith se ne è andato per sempre pochi giorni fa, a trentaquattro anni. Si potrebbe discutere per secoli su cosa sia “un genio” in musica; ammesso che tutto questo abbia un senso, perdonate l’ardire, Elliott Smith lo era.
(Marco Sideri)