Inedita (fino a qui) registrazione live dell'ultima formazione guidata da John Coltrane. Del quartetto storico degli anni '60 è rimasto solo il superlativo contrabbassista Jimmy Garrison, gli altri due componenti (McCoy Tyner ed Elvin Jones) non sono più riusciti a seguire e comprendere la magmatica e impetuosa deriva free-centrica del grande sassofonista afroamericano. E' l'11 novembre 1966, siamo alla Temple University di Philadelphia, Coltrane (già malato) suonerà dal vivo, da qui fino alla fine della sua tormentata esistenza, solo una manciata di altre volte. Dopo questo 11 novembre, niente è più stato documentato (o almeno sembra), salvo un concerto newyorkese del 26 dicembre 1966, appannaggio di pochi collezionisti, e il famoso ultimo concerto all'Olatunji Center di New York, datato 23 aprile 1967, a solo un paio di mesi dalla morte. La presa del suono del concerto all'Olatunji è decisamente meno limpida di quella che caratterizza questo nuovo inedito alla Temple University, che si presenta, quindi, come l'ultimo (per il momento) importante documento in grado di testimoniare adeguatamente sulla parte conclusiva della vicenda artistica di John Coltrane, uno dei più importanti musicisti del ventesimo secolo. Oltre a Garrison, ad accompagnarlo in questo scorcio finale di carriera sono la moglie Alice al pianoforte, il sassofonista tenore Pharoah Sanders, tra i simboli di un libero ethno-jazz, e il grande batterista Rashied Alì, vero e proprio meastro di un'infervorata poliritmia. I quattro costruiscono attorno al leader un sapiente, accondiscendente e rispettoso spazio sonoro adatto ad accogliere tanta forza espressiva. Diciamolo subito, questo è il Coltrane che può far più male, quello che può davvero generare lo strazio più lacerante.
Perché John Coltrane, come gli appassionati sanno, quasi inutile sottolinearlo, non è stato solo il brillante esecutore di quella famosa ballata che risponde al titolo di "My Favorite Things" o la luce sonica che squarciava l'oscurità davisiana e sparigliava le impalcature ritmiche di Philly Jo Jones, Paul Chambers e Red Garland nel leggendario quintetto del Miles Davis anni '50. Coltrane è stato soprattuto un uomo complesso, un artista profondo e sensibile, ossessionato dal bisogno di redenzione per sé e per l'intera umanità, bisognoso di trovare pace ed equilibrio in una ritrovata dimensione salvifica. Un'esacerbante sofferenza esistenziale, la sua, che potremmo definire di tipo romantico, perché priva di quel lucido conseguente nichilismo che spesso preserva da un pieno coinvolgimento, anticamera del proprio annullamento. Tutti aspetti di una sfaccettata vicenda umana che sono da sempre fortemente impressi nella musica di Coltrane, che è passata alla storia come nobile sinonimo di una spasmodica e incessante ricerca musicale, che fino all'ultimo non ha trovato le adeguate soluzioni in grado di fornire una defintiva requie. Coltrane, infatti, è sì stato il grande imprescindibile veicolatore dell'istanza di giustizia e libertà che proveniva dal free jazz e dall'intera comunità nera negli anni '60, ha certamente aperto nuove vie e frontiere, la sua è davvero una cornice formale espressiva ancora pressochè insuperata, perché dai profili e confini quasi illimitati, ma la sua vita resta segnata da una profonda frustrazione per un forte senso di incompiutezza. Un sentimento che lo ha letteralmente assalito, travolto, angustiato, e che negli ultimi anni lo ha costretto a muoversi in un modo sempre più vorticoso, rutilante e frenetico, anche per la drammatica consapevolezza di avere ormai poco tempo a disposizione, a causa di un fegato sempre più compromesso. Un'ansia, un'angoscia, che in questo documento sonoro sono decisamente evidenti, manifeste come in poche altre occasioni. Nella splendida versione di "Crescent", secondo dei tre brani custoditi in questa nuova registrazione - ventisei minuti di intensità al limite del sopportabile - sembra quasi di vedere Coltrane sbattere ripetutamente la testa contro un muro alla ricerca di un qualcosa che forse nemmeno lui a quel punto avrebbe più saputo riconoscere. Un'assoluta mancanza di pace, come testimonia anche il novantenne Ravi Shankar nelle note di copertina del disco. I due sono stati amici per un po' di tempo, tra di loro è soprattutto intercorso un ricco epistolario. Shankar, figura imponente della musica classica indiana, è stato determinante nello sviluppo della modalità in Coltrane, il quale ha sempre ammirato in lui, nella sua musica, e più in generale nella riverberante microtonalità della tradizione indiana, l'immancabile aura di calma e di serenità che la caratterizza, in sintesi la sua potenza taumaturgica. Una qualità che avrebbe voluto raggiungere anche lui con la sua musica e che a pochi passi dal definitivo commiato sentiva ancora tremendamente lontana. Ovviamente si sbvagliava, come dimostra ancora una volta questa emozionante e infuocata presa diretta. Perché, al di là delle sue personali insoddisfazioni, è ancora un Coltrane estremamente vitale e significativo quello che vi riprende vita. Un'ulteriore testimonianza dell'unicità della sua voce, esempio di onestà e autenticità, sintesi della storia di un popolo, delle sue lotte e rivendicazioni, dei suoi sogni, paradigma estetico di un intero linguaggio artistico, esempio di una catarsi in musica dalla forte valenza terapeutica e redentoria. Da non perdere. (Marco Maiocco)