L'uno, Dylan, ci ha fatto penare una bella smazzata d'anni prima di abbandonare il tardivo furore da crooner non a tutti gradito ( bastano e avanzano i neoswingers, a proposito), e decidersi a far uscire un disco degno di cotanto mercuriale nome. Nel frattempo, per fortuna , ha continuato ad aprire ad intermittenze sconosciute a noi mortali i suoi archivi fluviali, ricordandoci che passare attraverso i decenni significa anche lasciare molto di sparso, nei decenni stessi. L'altro, Neil Young, sembra aver ereditato dal nome una dote che per Dylan (il cantante) è quasi scomparsa: la voce eternamente giovane. Dylan ha in gola uno scheletro crepitante di suoni senza più armonici, l'altro quando accarezza i suoi inconfondibili profili melodici sembra puro sciroppo d'acero canadese, tutt'ora. Anche Neil Young è passato per i decenni, e se l'uno è sbandato per lidi sinatriani, l'altro a suo tempo si innamorò di vacui suoni computerizzati e soul music senza cavarne granché.
Passare per i decenni significa archivi, però, si diceva: e dall'archivio senza fondo di Neil Young ecco apparire Homegrown, disco perduto che va collocarsi tra On the Beach e Tonight's the Night. Fine '74, inizio '75 le incisioni. Circa metà dei brani gli younghiani di ferro li conoscono bene. Il resto è tutt'altro che scarto e accademia. Ad esempio la title track, uno di quei brani gonfi e vagamente ironici che quando li scrive Young vanno sempre a bersaglio, o perfino il bluesaccio da jam We Don't Smoke it No More ( ma tono e clima sembrano dire esattamente il contrario). White Line è una pennellato di saggia melassa, Little Wing dolcezza su dolcezza, Florida una scombiccherata narrazione con tanto di bicchieri da vino percorsi coi polpastrelli. Qua e là a dare una mano Robbie Robertson e Levon Helm della Band, a proposito di specularità con Dylan, e la fata gentile Emmilou Harris. Il viaggio perduto, va da sé, vale tutto il prezzo del biglietto. (Guido Festinese)