"Il futuro inizia lento", ci avvisano i Kills fin dal principio di Blood Pressures, che esce a tre anni di distanza dall'ultimo lavoro della band. Alison Mosshart qui torna all'essenza, ma sembra ancora intrisa dell'atmosfera Dead Wheater. Calda e sensuale reinventa la lezione rock di Patti Smith e dei Led Zep più blues, aggiungendo generose manciate di garage rock di Detroit, e un pizzico di malinconia vintage che riecheggia anche nel video del primo singolo Satellite, anche se meno teatrale di quella targata Dresden Dolls. Dalle immagini urbane si passa alle suggestioni orientaleggianti (Pots and Pans) e alle ispirazioni "lennoniane" di Wild Charms, dove Jamie Hince si cimenta alla voce. Non è però un disco che colpisce immediatamente: va ascoltato e centellinato, come si guardassero le scene di un vecchio film o una sequenza in esterno-notte in cui i personaggi si muovono staccati dallo sfondo. Nella metropoli tutto è distante e sfuggente: nemmeno il fumo della sigaretta ti appartiene e rischi di perderti in un cielo azzurro tutt'altro che idilliaco perché anche la grande città piena di luci, sinonimo istintivo di poesia, ti respinge. Tutto questo si sintetizza, come un discorso che si chiude, nella calma graffiata e quasi classica di Last Goodbye il cui testo tratteggia la realtà amara di un amore finito riprendendo e capovolgendo l'immortale canzone di Jeff Buckley del 1994. Ogni momento, persino il più bello, è transitorio e ritagliato nella memoria con un bel set di coltelli affilati. (Elena Colombo)
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